di Matteo Cantarella
Presentato a Cannes 2023, The zone of interest è l’ultimo film di Jonathan Glazer. Un film tra i più disturbanti e originali degli ultimi anni.
I primi tre minuti di The zone of interest presentano nient’altro che uno schermo nero con inquietanti rumori di sottofondo, un immaginario che stona con la vita bucolica che da li a poco verrà mostrata. È la storia di una famiglia, della loro normalità e della loro quotidianità. Sullo sfondo il fumo e le urla che si levano dall’interno del campo di Auschwitz. La famiglia protagonista infatti sono gli Höß, il cui padre è Rudolph Höß (Christian Friedel), primo direttore del campo di concentramento.
La trama del film si esaurisce in queste poche righe. L’enorme forza narrativa del film non fiorisce infatti nella “sostanza” della sua realizzazione ma nella forma, che in questo film non è solo un involucro ma adempie al doppio ruolo di stile e del contenuto stesso. Non da subito capiamo di chi realmente sta parlando il film. Ci viene mostrata la quotidianità di questi individui, la loro monotonia e semplicità. Un ritmo lento, cadenzato, che da subito impedisce l’identificazione da parte dello spettatore. La normalità, in tutta la sua anestetica rappresentazione, assume un carattare spaventosamente straniante. Le camere fisse, le panoramiche, la completa assenza di primi piani sono tutti sintomi che urlano che qualcosa non va. Quando capiamo la natura di quella famiglia, il loro ruolo e il loro scopo, allora il film cattura tutta la nostra attenzione.
Le vite di queste persone continuano imperterrite, limpide e felici nonostante a solo pochi passi da loro si stia consumando il più atroce delitto della storia. Viene in mente Hannah Arendt quando nel suo saggio La banalità del male smentisce l’idea del nazista come mostro, demone personificazione del male, e lo riporta sulla terra da uomo, semplice dipendente statale. La macchina dell’olocausto è un efficente ingranaggio burocratico creato dall’uomo per l’uomo. Se il male esiste è dentro di noi. Lo sterminio non viene mostrato ma interrompe le giornate di quella normale famiglia attraverso urla in lontananza, bagliori accecanti e colonne di fumo nero. Nonostante le riprese siano sempre a campo lungo, il film innesca un fortissimo senso di claustrofobia. Ti senti prigioniero in quella casa, in quelle mura, in quel contenimento rigido delle emozioni. In sala vorresti solo alzarti, urlare e implorare che finisca subito.
La seconda parte del film si concentra su tutto l’aspetto burocratico. Vediamo riunioni su riunioni, uffici di SS, scartoffie. È l’analisi millimetrica della gestione aziendale di come si compie un genocidio. Nel mentre per tutto il film vengono sparse scene di una ragazzina che semina mele in giro per il campo e sotto le bombe, protagonista, forse, di quelle fiabe per la buona notte che le figlie sono costrette ad ascoltare. Fiabe che rompono l’apparente normalità e ci riportano ad una situazione aliena.
L’aspetto tecnico del film -come anticipato- è lo strumento attraverso il quale si compie l’opera di Glazer. La forma che si fa sostanza sta proprio in questo: The zone of interest esiste grazie ad una regia eclettica. Lo stile documentarista, le immagini immobili, le inquadrature simmetriche e prospettiche danno l’impressione di osservare il film attraverso telecamere di sicurezza. Il montaggio pedina letteralmente i personaggi che si spostano da una stanza all’altra. Le inquadrature aperte non permettono nessun tipo di empatia ma anzi alimentano un forte senso di rigetto. Da questo punto di vista va elogiato tutto lo scompartimento di attori. La mancanza di pathos, di tensione e di coinvolgimento può indurre a pensare che la recitazione non abbia molto a che fare con il film. Niente di più sbagliato.
Gli attori, proprio perchè non ripresi in viso, parlano e recitano con il corpo. Le loro camminate, le loro posture, i loro gesti, studiano e riflettono una famiglia dei primi anni ’40, e lasciano trasparire il misero orgoglio dello “star facendo carriera”, nel sentirsi finalmente superiori a qualcuno. In questo senso lo stile è documentarista solo sulla carta, ma in realtà è una decisa presa di posizione che vede nel distacco e nell’apatia l’unico racconto possibile di una realtà inquietante e da condannare. Anche la colonna sonora gioca un ruolo fondamentale nella cotruzione delle atmosfere e nella creazione dello straniamento.
Il film si conclude con una scena quasi ipnotica. Rudolph scende le scale, sembrano non finire mai, come in un loop temporale. Si alternano immagini della moglie (Sandra Huller) e del presente. Viene mostrato il museo dove sono conservate le scarpe dei milioni Ebrei uccisi. Quasi come flash del futuro, queste immagini riescono in ultimo a perforare la mente del nazista che, dopo alcune rampe di scale, vomita sul pavimento. The zone of interest -la zone di interesse- è sì lo spazio fisico in cui abita la famiglia Höß, una sorta di purgatorio tra l’inferno del campo e il paradiso del mondo normale, ma è anche una zona altra -molto più interessante appunto- uno spazio nascosto dentro il comportamento dell’uomo: mostruoso, tribale ed indecifrabile.
Il film è candidto a ben cinque premi oscar tra cui miglior film internazionale, miglior film e miglior regia, ed è nelle sale dal 22 febbraio.