di Anna Pitta
Dare una seconda possibilità al “the last repair shop ” diventa possibile: un rifugio nell’affannosa corsa verso l’ignoto.
La pratica di riparare un oggetto rotto sta cadendo sempre più in disuso, nella nostra come in tutte le società più industrializzate.
In quest’era di consumismo, il modello piramidale delle necessità si trasforma in una struttura romboidale, dove ai bisogni primari come il cibo, si affiancano oggetti e servizi legati alla costruzione dello stato di benessere e alla salute umana.
Questo fenomeno è particolarmente evidente nel crescente ceto medio, gravato dal peso del consumo, che contraddistingue politicamente e sociologicamente questa classe, bombardata da problemi, per lo più inesistenti, creati ad hoc per soluzioni apposite che devono essere acquistate.
È in questo contesto di consumismo dilagante che “The Last Repair Shop” assume un significato d’eccezione.
Vincitore del premio come miglior cortometraggio documentario alla 96a edizione degli Academy Awards, “The Last Repair Shop” è diretto da Ben Proudfoot e Kris Bowars e prodotto da Breakwater Studios. Il film racconta la storia dell’ultimo negozio di Los Angeles che dal 1956 si dedica alla riparazione gratuita degli strumenti musicali per le scuole pubbliche.
L’azienda diventa il fulcro di quattro storie, ognuna centrata su un artigiano specializzato in una sezione orchestrale.
Attraverso le interviste davanti alla telecamera, tu spettatore, vieni a conoscenza non solo del lavoro pratico di queste persone, ma, e questo approfondimento un pò spiazza, vieni introdotto anche nella storia delle loro vite, intimamente intrecciate con la musica.
Indipendentemente dalla natura ardua o agevole del cammino compiuto, i quattro protagonisti sono come poc’anzi accennato, legati da un percorso comune delineato dalla musica, che li ha portati a un punto di soddisfazione e realizzazione personale, mai scontato nei percorsi di vita.
È proprio qui che “Last Repair Shop” si caratterizza, con la sua regia fatta di inquadrature nitide e primi piani intimi, esplora il concetto di “seconda possibilità“. Quella possibilità che spesso richiede un impegno extra, che si rivela essere la manifestazione di una passione e di una dedizione, in questo caso per la musica.
Tale passione traspare chiaramente sui volti dei giovani intervistati mentre mostrano gli strumenti musicali che suonano. È entusiasmo quello che vedi sul volto dei ragazzi, quello slancio mosso dall’amore per i propri sogni e aspirazioni.
In netto contrasto con i volti dei protagonisti (adulti), il cui lavoro nella musica li ha portati alla salvezza. Qui non si discute di sogni astratti, piuttosto dello stato concreto e vitale dell’esistenza che ha caratterizzato i loro percorsi.
È un documentario che silenziosamente funge da specchio delle realtà che viviamo, ponendosi come un confronto diretto tra le esperienze degli adulti e quelle dei giovani che arriveranno inevitabilmente a scontrarsi.
È un documentario che palesemente racconta l’amore dietro al proprio lavoro, quello di riparare strumenti musicali, testimonianza di bambini, ragazzi che parlano, ancora di un futuro che vuol prendere, in maniera del tutto inconsapevole, la forma dei propri sogni.
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