di Matteo Cantarella
Vincitore della Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, Anatomia di una caduta di Justine Triet si conferma alla 18° edizione del Festival di Roma come il film dell’anno. Sandra (Sandra Huller) è una scrittrice, vive in un piccolo paesino sulle alpi francesi con il marito Samuel (Samuel Theis) e il figlio Daniel (Milo Machado Graner). Un giorno riceve la visita di una giovane che vorrebbe intervistarla, ma la musica estremamente alta del marito intento a lavorare alla ristrutturazione della casa ne impedisce la riuscita. Daniel esce con il cane, al suo ritorno trova il padre morto disteso sulla neve. Questo è l’incipit del film che da subito richiama echi Hitchcockiani. Anatomia di una caduta si appropria di un genere, il legal drama, riscrivendo ogni regola possibile e immaginabile. Il titolo non è un caso poiché il film in maniera chirurgica analizza e disseziona il processo che vede Sandra imputata come assassina del marito. La regia nella sua neutralità, nella sua distanza dai personaggi si tramuta in spettatore, assumendone il punto di vista. La verità è celata ma la verità non è importante. Il processo che seguirà occuperà tutta la parte centrale e finale del film. Non esistono vere e proprie scene madre, non esiste un climax eppure la capacità della regista di creare una tensione palpabile e di catturare l’attenzione di chi guarda è sbalorditiva. Il taglio quasi documentarista lascia privilegiare una recitazione estremamente realista, con dialoghi e scene credibili e convincenti, anche nel ritmo e nella durata.
Tutto il cast regala delle interpretazioni lodevoli ma la vera scoperta è il giovane Daniel. Nonostante la neutralità della messa in scena il film non è un documentario. I personaggi sono stratificati, con conflitti potenti che vengono svelati man mano. Segreti, bugie, litigi, rimorsi e rimpianti costringono il piccolo Daniel a scoprire dei genitori che non sapeva ancora di avere. Le ipotesi avanzano e si sommano ma la verità risulta inutile. Non è quella che alla fine conta ma la capacità di saper vendere quella verità in cui si sceglie di credere. Il numero due ritorna nel film: due verità, due versioni, due lingue parlate. Il film disseziona anche e soprattutto il rapporto di coppia. Rivela il fallimento di un amore privo di comunicazione, di promesse infrante, di traumi non elaborati. Parla della paura di vivere nell’ombra di qualcuno che questa volta non riguarda il ruolo femminile. Justin Triet, armata di un potentissimo female gaze, riscrive tematiche femminili donandoci nuovi punti di vista. Riscopre una mascolinità fragile, incapace di conquistare il posto che da sempre crede gli sia spettato di diritto, e disegna una femminilità che sa essere dura, ambiziosa ma libera. La litigata mostrata attraverso un flashback tra Sandra e Samuel è una potentissima dichiarazione di quanto detto. I due si vomitano addosso le verità mai dette, rivelando la propria che non costringe alla morte dell’altro ma che rivela quanto la percezione soggettiva degli eventi distorce il reale. Urlano le loro offese e si rinfacciano i propri errori dimostrandosi alla fine come due specchi che all’ infinito si riflettono a vicenda. Alla fine un giudizio sarà dato ma non porterà né pace né condanna, svelando forse il vero obiettivo del film che è scoperchiare e denunciare la deriva di una società incapace di conoscersi. In tutte le sale italiane da giovedì 26 Ottobre