Lost in Translation: una lettera d’amore alla contingenza.

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Di Beatrice Mele

Lost in Translation è un film del 2003  scritto e diretto dalla regista statunitense Sofia Coppola. Il film è attualmente disponibile sulla piattaforma streaming Netflix.

Bob Harris e Charlotte si incontrano per caso durante una serata organizzata dall’hotel in cui soggiornano nella grande città di Tokyo. Lei è una giovane  laureata incerta sul futuro, la quale ha accompagnato suo marito Josh, che lavora come fotografo. Harris decadente attore statunitense, che è stato invitato in Giappone per uno spot pubblicitario non adatto alle sue competenze d’attore cinematografico, si aggira come uno spettro penitente proprio in quello stesso alloggio. Travolti l’uno dall’altro, i due vivono un’esperienza atemporale e intima che è destinata a rimanere un ricordo e a perdersi nel tempo.

1. La città di Tokio come protagonista: tra monotonia e dinamismo.

Il film inizia con delle immagini suggestive della città di Tokyo, comunemente riconosciuta come una metropoli molto popolata e ipnotica. Un’auto si muove tra le strade della città. Il primo primo protagonista ad essere presentato è Bob Harris interpretato da Billy Murray. Un’uomo sulla quarantina che si muove da un ingaggio insoddisfacente ad un altro. L’ultimo lavoro lo ha portato proprio a Tokyo. Alla vita e alle decisioni monotone di Bob si alternano spaccati cittadini giapponesi, la città in pieno fervore, sempre attiva in contrapposizione alla grigia e chiusa stanza d’albergo in cui soggiornano  i due protagonisti.

Poco dopo l’arrivo di Bob all’albergo, viene presentata la seconda protagonista di questa storia, Charlotte, che è interpretata da Scarlett Johansson. La narrazione dei due personaggi è parallela. Lo spettatore si ritrova coinvolto nelle vite di queste due persone, le cui esistenze apparentemente sono scollegate. La vita di Charlotte è una vita monotona da moglie trascurata che passa le sue giornate nella stanza di albergo, e girovagare per la città di Tokio come se fosse alla perenne ricerca di qualcosa o qualcuno. Prevale quindi, anche se in maniera implicita, questa contrapposizione  tra Tokyo, simbolo di vitalità e dinamismo e la prima parte del film, in cui c’è proprio una monotonia e individualismo diverso.

L’ambientazione giapponese è il modo in cui a tratti, la narrazione tende quasi ad essere parodizzante. Esempi espliciti sono l’incomprensibilità della lingua, oppure le scene in ascensore in cui è palese il riferimento all’altezza dei giapponesi rispetto a Bob Harris stesso vale per la scena della doccia è per la scena che si svolge durante la trasmissione del Talk Show giapponese.

2. La casualità dell’amore

Il film affronta varie tematiche tra cui il rapporto tra marito e moglie, in questo caso sonda gli aspetti disfunzionali delle relazioni matrimoniali dei due protagonisti. Altra tematica molto importante è il passare del tempo; entrambi i protagonisti rappresentano due generazioni a confronto, esperienze di vita diverse ma che in qualche modo, lungo il corso del film, finiscono per intrecciarsi ed essere s’esempio l’uno per l’altro.

La storia di due spiriti affini trovatosi per caso in un albergo in una delle città più grandi nel mondo.  Due età che si mettono a confronto. Due mondi che si scontrano: un mondo precario quello giovanile, non sapere  chi si vuole essere nella vita, è rappresentato da Charlotte. Dall’altro lato Harris, ritrae una maturità successiva al raggiungimento dei sogni e quelli che sono i compromessi che comportano le scelte intraprese per amore, per lavoro.

La solitudine in questo film regna sovrana. Chalotte è sola, di notte tormentata dall’insonnia, di giorno viene abbandonata perché Josh, suo marito è costretto spesso a lavorare. Ed è in questi vari momenti in cui la solitudine risulta essere un momento di raccoglimento, di crescita. Emblema di questo sentimento è la scena in cui Charlotte, dopo l’ennesima giornata nella camera d’albergo, ascolta uno CD che potremmo definire di crescita personale. Anche Bob Harris, almeno fino a quando non conosce Charlotte, è solo anche se costantemente in compagnia, più che una solitudine fisica è uno stato mentale.

3. Quando la vita personale incontra il cinema

Il film risulta molto ben fatto in quanto è figlio di un’esperienza personale della regista. Abbiamo spesso parlato di come, gli argomenti trattati in un film se vicini alle esperienze di chi le racconta, appaiono allo spettatore più veritieri, ben decritti e e di di conseguenza  il fruitore è più propenso ad identificarsi.

 

Il film, di fatti, è  una lettera d’amore per Spike Jones, autore statunitense nonché ex marito di Sofia Coppola. Il film avvia, benchè sia breve, un’intensa corrispondenza cinematografica tra i due, che di fatto, si scambiano il non detto con i loro film. La risposta di Skipe Jones è Her, film scritto e diretto appunto da quest’ultimo dieci anni dopo quindi proprio nel 2013.

4. Il Marchio di Fabbrica Sofia Coppola

Come regola vuole, anche questa pellicola grida Sofia Coppola. Fotografia e stile di regia sono perfettamente riconducibili al panorama cinematografico che con il passare del tempo, la regista stesso a creato. Due dei principali elementi che attribuiscono un particolare segno di riconoscimento alla regista sono la fotografia e la caratterizzazione dei personaggi femminili.

La fotografia è scura e buia nei momenti di solitudine, nel caso di Lost in Translation, il blu è il colore che prevale nei momenti di solitudine nostalgia e tristezza. Colori più vivaci e vividi caratterizzano un’atmosfera più serena e speranzosa. Per quanto riguarda i personaggi femminili, le donne nei film della regista sono sempre donne magnetiche, vicine al concetto di femme fatale senza però, almeno in questo caso, essere mai letali. 

5. Lost in Translation

Ho pensato tanto al titolo e al suo significato  che è stato completamente semplificato dalla traduzione appunto “l’amore tradotto”. In italiano Translation è traduzione ma se facciamo riferimento alla costruzione linguistica per intero, quindi alla definizione completa di “Lost in Translation”, ciò che viene fuori è tutto un altro mondo.

Dall’inglese, tale costruzione linguistica, indica in processo di impossibile traduzione in un’altra lingua di un determinato insieme di parole. A questo proposito il titolo stesso del film ci esplica perfettamente quello che il film racconta: una storia, che rimane ferma in un passato che progressivamente diventa perduto. Tale vissuto non può diventare reale, non può essere espresso nel presente quotidiano delle loro vite.

La prova dell’esistenza di momenti significativi anche se fugaci. L’abbraccio in mezzo alla folla è il momento più significativo del film, Bob dice  Charlotte delle parole non udibili, quindi non indirizzate allo spettatore. Un messaggio criptico che allo stesso tempo risulta molto chiaro chi guarda il film, le parole chiudono il film come per dire, è stato bello, memorabile ma momentaneo.

Leggi il mio ultimo articolo: Il giardino delle Vergini Suicide: Sofia Coppola racconta la tragicità dell’adolescenza.

Per approfondire il film e per saperne di più sulla visione cinematografica di Sofia Coppola consiglio la lettura e l’analisi del volume “Forever Young” di Hannah Strong, con la prefazione di Alice Rohrwacher. Per entrare nell’ottica del film e per lasciarsi coinvolgere completamente consiglio il brano “Please, please, please let me get what I want” The Smith.

Tags: autorialità femminile, cinema, film, Lost in Translation, Sofia Coppola

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