di Matteo Cantarella
Cosa succederebbe se gli Stati Uniti d’America dovessero affrontare una nuova guerra civile? Questa è la semplice quanto complicata premessa del nuovo film di Alex Garland: Civil War.
Il compito -se di compiti possiamo parlare- del cinema è quello di saper riflettere sulla realtà ma soprattutto sulla contemporaneità. Riflettere come uno specchio, in cui spesso è difficile guardare, i tormenti e i “gusti” del presente. I film di guerra sono sempre stati uno dei generi preferiti -insieme alle commedie- per incarnare questo spirito (serve citare Apocalypse Now o Platoon?). Alex Garland non tradisce questa aspettativa girando un film che -mi sento di dire- sarebbe piaciuto a Coppola tanto quanto a Stone. Ciò che rende diverso Civil War è che la guerra qui non diviene il soggetto ma l’oggetto dello sguardo. Letteralmente.
I protagonisti infatti non sono soldati ma fotoreporter. La giornalista Lee Smith (Kirsten Dunst) è decisa ad avere l’esclusiva sull’intervista al presidente degli USA che combatte contro gli stati secessionisti. Insieme a Joel, partner in crime (Wagner Moura), il suo mentore Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la “recluta” Jessie (Cailee Spaeny) partono alla volta di Washington. Questi personaggi -Lee più di tutti- sono divorati dal loro lavoro per il quale annullano qualsiasi paura e posizione morale. Vediamo flashback di Lee che durante una sparatoria continua imperterrita a fotografare corpi che cadono a terra, teste che esplodono, uomini che sanguinanti urlano aiuto. A ogni colpo di pistola corrisponde uno scatto della macchina fotografica.
Il film così entra nel vivo e semina le basi di un gigantesco dilemma che genera a sua volta un grande conflitto. Può l’insacrificabile dovere di documentare la storia, di testimoniare gli eventi, scavalcare il dovere di aiutare un moribondo, fosse esso anche dalla nostra parte? E se in quello scatto che sa di sentenza di morte si nascondesse addirittura dell’arte?
La guerra come detto è qui oggetto dello sguardo e non ci si pone nessun interrogativo morale o politico. Il film non spiega le origini del conflitto, non presenta le parti chiamate in causa nè ti lascia empatizzare con uno dei due fronti. Il suo intento è di mostrare la brutalità della guerra, e forse la sua malvagia bellezza. Si interroga sul ruolo e sull’importanza del reportage che incarna e blocca nel tempo un attimo che è testimonianza storica del presente. L’America di oggi è un’ America divisa, spaccata, confusa e in deterioramento. Una guerra di facciata in cui si scontrano ideali fallaci e privi di fondamento, segno che dalla storia, che anche le foto ci hanno tramandato, si ha imparato poco o niente.
Ma gli eroi del nostro film non sono in grado di cambiare nulla. Anzi. Completamente servi del loro ruolo impersonificano la ubris del mondo contemporaneo. Anestetizzati da un incolmabile voyeurismo quasi si compiacciono dell’estetica della morte e della violenza. Trasformano la macchina fotografica in uno strumento di morte, capace di intrappolare per sempre in uno scatto il dolore.
Il film è quindi, di fatto, un viaggio, al quale ovviamente corrisponde un viaggio interiore dei protagonisti. Lee è la giornalista esperta, capace di rimanere sveglia e apatica su un campo di battaglia anche se poi in disparte sente i sensi di colpa. Jessie è una giovane giornalista che vorrebbe seguire le sue orme ma che davanti alla prima scena di morte rimane immobile e in balia del panico. La sceneggiatura del film svela il fulcro tematico già dalle prime scene quando Lee chiede alla giovane promessa se sarebbe in grado di fotografarla mentre muore. Seguono diverse prove dove Jessie rinforza il suo spirito e cade in una spirale che lentamente la inghiotterà, mentre Lee, forse spossata da ormai tutte le perdite che ha subito, ritorna in balia della paura e dell’incertezza. Così arriviamo alla magistrale sequenza finale, dove Jessie ormai al massimo del suo piacere voyeuristico si sporge troppo per poter scattare la sua foto mettendosi in mezzo alla linea di sparo. Lee, che nel suo viaggio ha imparato che forse vale la pena proteggere chi si ama, usa il suo corpo come scudo. Ecco che i due ruoli si invertono e come annunciato all’inizio, Jessie, con una calma sovraumana, fotografa il corpo della sua mentore cadere a terra senza vita.
Il viaggio è quindi un viaggio iniziatico per lei, è un rito che la porterà a prendere il posto di Lee. È un finale dolce-amaro perchè seppur il presidente viene fermato e si mette fine alla guerra, non sappiamo davvero se i vincitori siano migliori dei vinti quando, tra chi decide di salvare una vita e chi invece la lascia andare senza rimorso, la prima perisce e la seconda sopravvive.
Entrando negli aspetti più tecnici, il film non poteva essere girato in altro modo se non questo. Lo sguardo è quello, se vogliamo, dello spettatore. Uno sguardo analitico e apolitico. La regia gioca con i linguaggi del cinema, della fotografia e della pittura lasciando danzare armonicamente “il plastico, l’immobile e il dinamico”. Il montaggio gioca un ruolo in prima linea sia sul piano del ritmo sia sul piano intellettuale. Gli effetti speciali sono da Oscar così come il suono. Il cast funziona ma suggerirei a Kristen Dunst di ampliare la sua gamma di espressioni facciali.
In chiusura Civil War rappresenta un nuovo traguado del genere, dove la guerra non è in fondo la protagonista ma è solo uno dei tanti scenari all’ interno dei quali l’uomo può agire nelle sue vesti più crudeli e ambigue.
Con il più alto budget che la casa di produzione A24 ha mai investito, Civil War è nelle sale dal 18 aprile